Il 9 gennaio 2020 presso la società Filarmonico Drammatica ha preso il via la stagione di incontri e conferenze organizzate dall'Associazione Amici dello Sferisterio. Per il quarto anno consecutivo il percorso accompagnerà soci, appassionati e curiosi alla scoperta del teatro musicale e della stagione del Macerata Opera Festival.

Primo relatore, il prof. Marcello La Matina, docente dell'Università di Macerata, membro del comitato scientifico della rivista "De Musica" edita dall'Università Statale di Milano. E' semiologo, filosofo, musicologo ma soprattutto  appassionato di musica e di opera.  E' stato allievo di Eliodoro Sollima ed è compositore lui stesso di pagine di musica. In questa intervista traccia un quadro generale sulla musica, il teatro musicale e ci parla di #biancocoraggio.

 

Professore, da appassionato quanto ritiene importante la conoscenza, l'approfondimento di argomenti legati alla musica nella vita di tutti i giorni?

Chiedere questo a un appassionato rischia di sminuire le ragioni oggettive della risposta.  La domanda è antica. Ancora al tempo di Aristotele, per esempio, i Greci avevano un curriculum costituito dallo studio dei poeti (Omero era insieme antropologia e religione), dell’aritmetica e della ginnastica: tutte cose necessarie per un buon cittadino. Per tradizione, però, si insegnava anche la musica: e il filosofo si chiedeva se la conoscenza della musica aiutasse a essere cittadini o uomini migliori e perché. La domanda ne rivelava un’altra, oggi ancora interessante e nuova: che cosa significa conoscere la musica? Significa saperla leggere? saperla produrre? saperla ascoltare? Certo, queste sono cose centrali. Ma io sposterei l’attenzione altrove. Leggere, produrre e ascoltare sono atti che ci mettono in rapporto col suono; un rapporto che – lo vediamo continuamente oggi – può essere consumato anche in privato, ovunque ci siano degli auricolari, un microfono, una radiolina o una chitarra. E’ questa conoscenza di cui dobbiamo parlare? Non credo. Penso che avere un rapporto privato con il suono non sia quel genere di conoscenza che al filosofo deve stare a cuore. La conoscenza della musica per me ha a che fare con il frequentare il suono musicale là dove anche altri lo fanno: le sale da concerto, i teatri, e luoghi simili. Ciò che fa la differenza fra l’avere una esperienza privata e l’avere una conoscenza della musica è questa dimensione politica, l’ascoltare musica dove anche altri ascoltano musica. Questo mi porta a dire che conoscere la musica è passare dall’esperienza privata che tutti possiamo fare alla persuasione che non c’è dimensione conoscitiva che là dove altri uomini e donne sono convocati dal suono, dal canto; là dove le mie personali impressioni possono essere condivise, accreditate o sviluppate dal confronto intersoggettivo, dalla relazione tra pari. Oggi la frequentazione dei luoghi della musica è un aspetto critico; occorre invece dargli peso centrale, perché non si conosce la musica se non si sa, o non si vuole, andare a trovarla in casa sua, là dove essa è apparecchiata per l’ascoltatore, per il suo ospite. Occorre tornare ad essere capaci di farsi ospiti in casa della musica.

Come filosofo del linguaggio (semiologo), in che modo può inquadrarsi il rapporto tra parola e musica nel teatro musicale?

Occorre vedere se si tratta di un rapporto tra due cose separate, ovvero se non si tratta di una unione originaria che è stata solo successivamente scissa. Di fatto, la parola mousikè indicava in greco sia la melodia del canto sia la parte linguistica – e forse anche una parte legata alla danza. Varie spiegazioni degli antichi illustrano questa originaria unità del suono modulato e del suono articolato: come se, nati insieme, parole e canti avessero poi preso strade differenti. Potremmo dire che la parola si è emancipata, si è affrancata e la musica ha imparato a far da sola: ma appare una spiegazione debole. La verità è che forse questa unione originaria è sempre stata cercata come se realmente si fosse data, come una sorta di mito originario della fondazione del vivente uomo. Se è così, il tentativo ricorrente di ripensare in una matrice unica i due elementi è ciò da cui nasce ogni esperienza del teatro musicale. Se, dunque, l’unione di parole e musica è il Mito originario, allora ogni teatro musicale che cerchi di celebrarla o rinnovarla è il Rito fondativo.

E' possibile tracciare un percorso evolutivo per cosi dire "parallelo" di lingua e musica nella storia dell'opera lirica?

Ritengo che il parallelo sia nella nostra testa, che ha una impostazione prevalentemente spaziocentrica. Nelle culture dell’oriente, si penserebbe al tempo, al confluire della materia cosmica in un caleidoscopico equilibrio che ogni volta deve essere distrutto per potersi ricreare. Noi occidentali vediamo nell’estensione spaziale una speciale proprietà delle cose, mentre l’uomo orientale ha piuttosto il senso del nuovo ad ogni istante. Ciò premesso, a inventare il teatro musicale sono stati gli Occidentali, e il modo in cui essi si rappresentano la loro storia musicale spesso vuole che l’innovazione musicale abbia proceduto parallelamente, cioè spazialmente, in stretto rapporto a quella linguistica o poetica. Contesto questa platitude, per una buona ragione: il teatro musicale è stato inventato molte volte, direi ripetutamente. E ciò che ha più inizi ha anche più storie e nessuna al tempo stesso. Monteverdi ha messo in asse la vocalità del parlato con le ragioni del madrigalismo, col suo desiderio di far vedere le parole umane come fossero “fumetti” della passione, bolle di fumo di sigaro in una sala di corte. Tuttavia, né Cimarosa né Rossini – anche loro fondatori del teatro musicale – fecero nulla di simile: anzi, si sforzarono per scrostare il peso di una tradizione che ritennero non più sopportabile. Anche Verdi ha rifondato da par suo il teatro: e lo ha fatto in modo da far emergere una linea che premiasse la parola proprio nel momento in cui essa offre il suo collo alla musica, alla voce musicale: questo sono la romanza, il canto corale spiegato, la vividezza del tema, sono sacrificio e consacrazione di un equilibrio ottenuto a caro prezzo. Cosa dire poi di Puccini o di Wagner? Wagner cercava di rifare il teatro dei Greci, partendo dalla convinzione – ai suoi tempi diffusa in Germania – che le medesime leggi linguistiche del greco fossero operanti nell’antico germanico e, da lì, fossero poi passate nel moderno tedesco. Chiediamoci: Wagner creava una nuova storia o voleva entrare nell’antica storia? Puccini è diverso: il suo tentativo di fondare il teatro musicale nasconde una insofferenza verso le regole della poesia di genere, della parola teatrale: sotto questo aspetto lo si potrebbe vedere come uno Stanislavskij che cerchi di rendere visibile lo “spartito interiore”. Puccini amava le parole e detestava i librettisti: avesse avuto maggiore fiducia in sé, si sarebbe scritto i testi da solo. Di fatto, fu Puccini a introdurre un interessante uso di clusters armonici e melodici insieme, di formule musico-verbali ricorrenti, che poi sarebbe stato lungamente imitato. Ultima osservazione: buona parte della filosofia del Novecento ha cercato di pensare il rapporto e le dominanze di parola e musica nel linguaggio umano o nelle pratiche musicali stesse. Husserl, Wittgenstein o Peirce hanno diversamente indagato i sofisticati rapporti tra frase linguistica e cadenza musicale, tra tensione e risoluzione. Non si può oggi pensare che la gente vada all’opera senza avere introiettato anche un po’ di queste riflessioni, magari orecchiate ma capaci di far sì che nuove idee di teatro musicale possano sorgere e venire sostenute. Ogni stagione lirica ha in sé il potere di “ricreare” o inventare un nuovo teatro musicale, ogni esecuzione è in potenza un manifesto di teatro lirico possibile. Per questo dicevo che la musica va visitata dove essa si concede ufficialmente e dove anche altri possono ascoltarla principalmente nei teatri e nelle sale da concerto.

#VerdeSperanza, #RossoDesidero, #BiancoCoraggio. Tre temi che si legano e arrivano a chiudere un percorso non casuale.

Sì queste tre stagioni, fino alla presente, sono all’insegna di tre colori, o se si vuole del drappo che li contiene: la bandiera tricolore italiana. Questa annotazione non è un semplice fatto “di colore”, ma ci richiama al ruolo che il teatro musicale ha assunto ancora recentemente quale segno caratteristico nella carta d’identità dell’alta cultura degli italiani europei. Avere accostato per tre anni un colore a una terna di opere ha suscitato plauso e qualche critica. Penso che nessuno obietterà se io rilevo un merito della formula. L’anno scorso si sono collocate sotto la rubrica “rosso desiderio” tre opere molto diverse fra loro: Macbeth, Carmen, Rigoletto. Ebbene, questo accostamento ha suggerito approfondimenti e stimolato domande che, accolte in varie sedi ed eventi collaterali, hanno permesso al pubblico di cogliere legami prima non sospettati. Il mettere le cose insieme produce delle ipotesi interpretative: talvolta si scopre quel che già c’era, altre volte si crea o si scopre qualcosa che non c’era o che non s’era scoperto prima.

Bianco coraggio. A prima vista un accostamento improbabile, quasi un ossimoro eppure.... 

La coppia Bianco Coraggio rientra tra le scoperte che andranno fatte e che forse rivelano aspetti insospettabili prima. L’uso linguistico lega la parola Bianco a cose, sentimenti, persone, ma non al coraggio. Si può allora rifiutare l’accostamento, ritenendolo non necessario, ovvero ci può interrogare su quello che travalica gli usi registrati. Io mi son chiesto, per esempio, cosa accade a livello percettivo, dove il bianco non è né una parola né un concetto, ma una semplice predisposizione a ricevere colore. Assomiglia un po’ alla “potenza” di Aristotele: è una disposizione a ricevere una impressione cromatica, ad ospitare una sequenza cromatica. Bianca è in questo senso ogni cosa (anche non fisicamente bianca) che aspetti e in qualche modo richieda del colore: lo spazio lasciato in bianco, il blank delle formule logiche, il foglio su cui scrivo questi caratteri. Nel comunissimo prisma il bianco si rileva, più che come colore, come la condizione perché si diano dei colori. Se il bianco non è solo una proprietà fisica, ma un fenomeno dell’esperienza, una condizione delle cose e anche dei soggetti, allora diventa lecita la domanda “Cosa accade quando una distesa di tal sorta viene istoriata, iscritta, “mascariata” dall’avvento spesso aggressivo di un pigmento?” Rompere la distesa bianca richiede un atto, un gesto che deve essere tanto più violento quanto maggiore è la presa che esso rivendica: ogni azione di tracciare colori su una superficie non-colorata è un atto che implica il coraggio, non foss’altro che per il fatto che esso segna un inizio di qualcosa. Il coraggio di inziare ci rivela una qualità del bianco che è quella qui importante: la disposizione a ricevere impressioni.