"Ogni volta che aspettiamo l'inizio di uno spettacolo dovremmo pensare a quante persone sono necessarie affinché quella magia abbia luogo"

Il dietro le quinte è un mondo magico ed è lì che troviamo Francesca Ballarini, disegnatrice e visual artist che dal 2012 cura l’immagine del Macerata Opera Festival - Sferisterio.

Con pochi tratti è capace di racchiudere nei suoi disegni il mondo che ciascuna opera porta con sé conquistando l'attenzione dell'osservatore e catapultandolo in questo mondo parallelo che conquista gli appassionati di lirica.

Laureata all’ISIA di Urbino in comunicazione visiva, è illustratrice freelance: disegna con inchiostri, pennini e pennelli, carboncini, lettere, macchie e graffiti, per aziende, teatri, festival e case editrici in Italia e all’estero.

Per l'Aida di Giuseppe Verdi con la regia di Francesco Micheli ha creato i disegni proiettati in scena: partendo dai geroglifici egiziani ha elaborato un codice di segni d'inchiostro, forme e lettere, fino a comporre il linguaggio visivo del teorema narrativo e affettivo di Aida, in un dialogo intimo tra la storia e i personaggi.

In queste settimane è stata impegnata nella "metamorfosi" di AIDA per adattarla al palcoscenico del teatro Comunale di Bologna dove ha debuttato lo scorso 12 novembre.

In attesa che arrivi domenica e di poter finalmente ritrovare Aida a Bologna, le abbiamo chiesto: che effetto fa vedere un'opera definita "kolossal" da Francesco Micheli adeguarsi ad un teatro chiuso? Quali e quanti cambiamenti sono stati necessari? Quale emozione (ri)vederla nuovamente in scena?

" Cambia tanto, cambia tutto, anche se non immagineresti mai così, finché non ci sei dentro, o “dietro” le quinte, come dici tu. La struttura di quel che sapevamo rimane, ma le sfumature cambiano, basti pensare che c’è un tetto, e non il cielo d’estate dell’arena su cui posare lo sguardo tra una luce proiettata e l’altra.

Si tratta di racchiudere la macchina d'opera e di segno e di luce dentro un teatro, bellissimo, di quelli con il soffitto, il lampadario, il tagliafuoco, il sipario, gli stucchi, l'oro.
Si tratta di rendere elastica e di creta una forma già scolpita, è un esercizio di malleabilità, trovare casa in un Egitto ancora una volta nuovo.
Si tratta di lasciare l'odore dell'estate e abitare quello del velluto dal color di salvia, e il freddo e l'ora solare che stanno là fuori in Largo Respighi in mezzo ai passanti e alla nebbia d’autunno.
Si tratta di mollare un po', qualche volta, tutto quello che già sappiamo. È una grande forma di elasticità, da imparare e ammirare, dico io. E Aida insegna bene a capire le differenze: ogni volta che la rivedo e  l’ascolto, insegna qualcosa di più.

È un kolossal, e anche un piccolo cuore che pulsa, soprattutto. Ci permette di vedere quanto siamo piccoli e fragili e vulnerabili, e non quei giganti che strabordano di marce trionfali. La delicatezza di tutto ciò che intride la storia di Aida e Radames e Amneris trovo che sia la cosa più autentica a cui accostarsi. E quella duplicità, che compare ovunque nell’opera, del grande e del piccolo, del fragile e del possente, del trionfo e della sconfitta e dell’anatema, è qualcosa di profondo e molto più umano d’ogni parata stellare.

Vedere tutto questo in un teatro, “circoscritto” e meraviglioso, ha secondo me accentuato la potenza sottile di una storia sempre troppo considerata solo di elefanti e ori e fanfare.

Il “segno” ci permette di leggerla sotto questo punto di vista. È come quando tracci su un foglio ciò che immagini oppure ricordi, sovrappensiero: sono frasi e immagini che ti compaiono in mente, anche oniriche, contorte e labirintiche, come la propria terra in cui Aida vorrebbe tornare, o il sogno di gloria e d’amore compiuto di Radames. È la ricerca scritta di una strada, di una via di fuga, di una risoluzione alle intricate reti del destino. Trovare la linea che ti porta fuori, che ti permette di leggere, tradurre la tua storia.

 Arrivare alla prima - dopo un lungo lavoro, stretto nel tempo, e concitato di tante mani e cura di professionisti - stanca ma emozionata, e con quel timore di affrontare un pubblico sconosciuto, è stata una bolla di sensazioni mescolate, in cui vorresti che quel che si è costruito tutti assieme arrivasse, pieno e chiaro, e di stupore vero, senza strade facili o vuote.

Il giorno dopo la prima, ha nevicato inaspettatamente a Bologna, e io ho scritto di getto quel che finalmente mi era un po’ più chiaro, quella sensazione del tutto, quella chiarezza di sublime che l’opera, Aida per me, ormai intrisa d’empatia, ti lascia.  La chiarezza (grata) del giorno dopo.

Ve la lascio qui, come un foglio di papiro non-proiettato. E vi auguro buona Aida, a voi amici dello Sferisterio nostro, e amatissimo!

“Lunedì 13 novembre. Fuori nevica. In poche ore ha fatto Bologna bianca, ha coperto il foglio per ridisegnarci su. Il cielo violetto, le scarpe fradice, il cuore palpitante ancora di tuoni e colpi di grancassa.
Nella febbre del giorno dopo il debutto potrei essere come quella neve lì a sorpresa, che si deposita sul colore lasciato, ora dorme sottocoperta.
Mi faccio intridere sempre, troppo, no non troppo, ma ogni fibra di me è dentro il disegno, e tutto è personale, e il bene e il male.

Quando si sono spente le luci di sala ieri sera alla prima di Aida, ho respirato forte, ho guardato le luci e le ombre e le ho lasciate andare, ancora una volta, come a dire forse vi capiranno forse no, forse alcuni sì altri no.
Dal palco laterale n.6 guardavo la gente, pubblico sconosciuto, guardavo i disegni miei e la gente in platea, e negli ordini, e giù e su, fin al lampadario di cristallo, fin al cielo col soffitto. Chissà che volevo leggere nel tragitto degli occhi loro e ritorno, cercare di capire, come vorrei che capissero sempre. Volevo tracciare una linea anche lì.
Poi, a un certo punto, non ho guardato più gli occhi degli altri. Ho dismesso la matita immaginaria che segna i tragitti, mi son girata verso la scena e la musica e chi ci stava sopra a quei disegni chi seguiva le linee e riportava la storia, una storia gigantesca quanto un cuore, di guerra e di pace, ché quelli erano i miei eroi ora.

E alla fine sentivo solo la pelle da brivido come sulla neve, come per la prima volta lì davanti, avevo lasciato il controllo su tutto, perché tutto era nato già, e avevo lasciato il controllo anche su me. E quel colpo di sublime, di cui sono sempre così grata, mi ha gettato addosso tutta la sua forza. Quella che ora sa bene quanto dietro ogni cosa che vediamo c'è un lavoro di mille mani, che costruiscono una piramide che verrà vista, verrà rappresentata, verrà posta "avanti agli occhi degli altri".

Questa cosa del mostrare a me fa cadere dalla sedia, e il teatro lo insegna nella maniera più fisica.  È come essere una finestra, un orizzonte. È la possibilità di essere come il mare verso cui ti affacci, o un cielo di notte in cui vedi poco nulla, e quel poco ti basta. Diventare paesaggio. Esser visti da tante prospettive, causare un effetto, un riflesso. Farsi mare.

Alla fine, mentre il sipario calava, avrei potuto scoppiare davvero come un palloncino, per quello che ora nasceva dal buio.
Perché era arrivato, la sinfonia del tutto era arrivata.
Tutti noi eravamo mare.”

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